sabato 20 ottobre 2012

Elif Shafak, La Bastarda di Istanbul






Se avessi dato retta ai miei gusti e al mio istinto, questo romanzo non sarebbe mai finito negli scaffali della nostra libreria: rifuggo come la peste le scene di violenza, ancor peggio se su donne e bambini, e trovo a dir poco fastidioso che l'editoria di questi anni abbia sfruttato a fini palesemente commerciali un filone così delicato come quello del libro-denuncia o del libro-confessione. Il che non significa che non si debbano pubblicare romanzi che tocchino tematiche del genere, anzi: non c'è come la pagina scritta che abbia il potere di diffondere idee e sollecitare coscienze. Ma, mai come in questo caso, est modus in rebus: e mettersi a pubblicare tutto quello che si trova, sulla scia del meritatissimo successo di Leggere Lolita a Teheran o Il libraio di Kabul, per dire, fa un pessimo servizio: alla sensibilizzazione delle coscienze e alla pazienza dei lettori: perchè se mai c'è qualcosa che indigna di più del  sospetto che una materia così drammatica e delicata venga sfruttata a fini di lucro,  questo è vederla scritta con i piedi. Cosa che, purtroppo, succede nove volte su dieci. 

Questo, dunque, è il motivo per cui quando vedo da lontano un titolo che anche lontanamente possa farmi sorgere il dubbio che possa appartenere a questo genere, cambio reparto: devo averlo fatto anche con La Bastarda di Istanbul, a ripensarci, visto che possiedo un'edizione ultra economica, frutto di non so più quante ristampe. Ma, in questo caso, ho fatto male. E faccio pubblica ammenda qui sopra, con una rece doverosamente breve ma intensa :-), quale tocca di solito a tutti i romanzi che, in un modo o nell'altro, hanno toccato le corde del mio cuore. 

A dispetto del titolo, la ragazza di padre ignoto e di madre volutamente confusa nel mucchio delle tante zie, è una delle due protagoniste del romanzo: l'altra è una ragazza americana, figlia di una ragazzona dell'Arizona e di un armeno, sposata in seconde nozze con un turco. Nonostante le differenze culturali e ambientali, le famiglie delle due ragazze si somigliano, unite come sono da un  filo rosso di antichi rancori, che nel caso di Armanoush ha preso le forme di una delle più strazianti tragedie del secolo scorso (il genocidio degli Armeni), che qui diventa paradigma di un vivere quotidiano intessuto di piccole rivalità e di dispetti. E' un dispetto fatto alla ex suocera, per esempio, la scelta di un nuovo marito turco fatta dalla mamma di Armanoush, incapace di riprendersi dalla felare notizia del matrimonio dell'unico figlio maschio con una donna non armena; ed è una trafila infinita di dispetti quella che scandisce la vita della famiglia di Asya, ad Istanbul, tutta popolata di donne turche, dalla nonna alle sue quattro zie, visto che l'unico figlio maschio non solo ha osato lasciare la Turchia per studiare negli Stati Uniti, ma si è addirittura fermato là per sempre. In un panorama tutto al femminile, non stupisce che sia questo unico figlio maschio l'anello della catena che farà incontrare le due ragazze: Armadoush vive la sua identità di armena in modo sempre più conflittuale, soffocata dal rigore del ramo paterno e bramosa di conoscere direttamente la verità e per questo decide di partire per Istanbul, senza dir nulla a nessuno, chiedendo ospitalità alla famiglia del marito di sua madre. Che, ovviamente, è il fratello delle tante zie di Asya, che con lei ha in comune i 19 anni e il tormento della sua condizione. La prima è solare, semplice, diretta; la seconda è inquieta, seducente, tenera nel suo essere arrabbiata col mondo: diventano amiche ed iniziano assieme un viaggio nel tempo, alla scoperta di una storia di dolore, unico modo per poter sganciare le zavorre del loro passato e librarsi nell'aria pulita del loro futuro. Un cerchio che si chiude, là dove era cominciato, ma che apre ad entrambe le porte di una verità scomoda, inquietante, traumatica, a suggello di un lacerante rito di passaggio nel quale le domande troveranno risposta e la confusa incertezza di una identità celata si perderà per sempre, nella scoperta delle proprie radici e nel nuovo coraggio per affrontarle. 

Un tema così inquietante (e tre: di solito, odio le ripetizioni, ma ci son situazioni che inchiodano al vocabolario) è pericolosissimo da narrare. Perchè il rischio di finire nello splatter, nella pornografia, nella volgarità è costantemente dietro l'angolo. A meno che non si sappia scrivere, cosa che la Shafak sa fare e pure bene. Tant'è che trasporta tutta l'angoscia delle sue tematiche in un ambiente vivo, moderno, stimolante, giovane, ironico, dissacrante e la sviluppa in un romanzo, nel senso vero del termine: tanti personaggi, con i protagonisti cesellati in ogni dettaglio e via a sfumare, in una galleria di personaggi variopinti, ognuno con una fisionomia sua propria, a volte un po' troppo caratteristica, come d'altronde è inevitabile se si sceglie la via dell'umorismo. perchè- strano ma vero- in questo libro si ride. e lo si fa sullo sfondo di una Istanbul contemporanea, che morde il freno della modernità, che ci svela le sue mille facce, così differenti, così nuove, così contraddittorie, raccontate senza mai giudicare, con il distacco benevolo di chi sa amare, comprendere, perdonare. 

Grandissimo libro, davvero. 
buon fine settimana
Ale