lunedì 15 giugno 2009

La tredicesima storia

Io mi sono laureata molto presto. Anzi, ad essere precisi, mi sono bi-laureata in tempi record. Prima che attacchiate con i complimenti, però, va detto che il merito è stato principalmente non della sottoscritta, quanto di una serie di fortunosi eventi di fronte ai quali non avevo altre alternative che schiacciare il pedale dell'acceleratore e arrivare presto in fondo. Di qui c'era un padre adorato e adorante, per il quale la laurea della sua primogenita si era caricata di significati imperscrutabili e importanti e che io non avevo nessuna intenzione di deludere; di là c'era un lavoro - anzi: il lavoro, quello per il quale avevo sparigliato le carte, mandando a monte progetti di carriere più gloriose per inseguire quello che allora era il sogno della mia vita- ottenuto a tempo di record, perché stranamente al posto giusto nel momento giusto, ma che andava mantenuto e difeso con la sola freccia di cui disponeva il mio arco, e cioè le carte in regola per poter giocare la partita. E queste, non avendo altri santi in paradiso che le mie capacità, passavano giocoforza anche per le lauree.
Va da sè che abbia studiato di corsa: dover bruciare le tappe significa non potersi concedere un sacco di lussi, che allora erano il pranzo alla mensa degli studenti (il lusso più ambito di tutti) , lo scambio degli appunti, la pausa caffè in biblioteca, l'approfondimento degli esami più amati; il tutto facendo salti mortali fra ricevimenti di professori che non c'erano, appelli che saltavano, programmi che raddoppiavano, perché, da lavoratore, dovevi scontare il privilegio di non poter frequentare, di studiare all'alba o a notte fonda, di dover spendere metà stipendio in libri inutili e costosi, portando all'esame il doppio degli altri.
Trovare una strategia divenne una scelta obbligata, che mi costrinse a mettere in cantina uno scalpitante spirito critico e una terrificante vis polemica, per imparare a memoria le dispense dei professori, studiando, in pratica, non la materia, ma quello che i docenti avrebbero chiesto all'esame. Fu così che mi laureai in fretta, in entrambi i corsi, ovviamente con una media da far paura, quale compete, nella scuola italiana, a chi pensa con la testa dei professori e non con la propria. Ma fu così che, appena sgravata dagli obblighi istituzionali, decisi che era venuto anche per me il momento di prendermi i miei spazi, su tutti i fronti. E mentre, da un lato, recuperavo il tempo perduto sul fronte del puro divertimento, dall'altro cercavo uno spazio per rivendicare il diritto ad esprimermi in campi più nobili di quanto non fossero le piste di una discoteca o i retrobottega dei forni per la prima infornata di focaccia della notte.
Fu così che fondai il V.I.P.
Si trattava di un circolo di lettura, il cui nome era l'acrostico di Vietato Il Prestito, essendo già all'epoca una bookalcholic al penultimo stadio, e il cui scopo era quello di parlare di libri in libertà, senza cioè dover far coincidere di necessità il nostro giudizio con quello che fino ad allora avevamo letto sui manuali o, peggio, con quello che i nostri insegnanti volevano che ripetessimo a pappagallo. Ne facevano parte, oltre alla sottoscritta, alcuni amici diversi per età, personalità, formazione e carattere, ma tutti malati di lettura, come me e, come me, desiderosi di un confronto onesto, sereno, sincero e finalmente libero dalle pastoie delle convenzioni, delle mode, delle piaggierie di turno. Con cadenza quindicinale, ci riunivamo a casa mia, fra casse di libri e vassoi di biscotti, a tirar l'alba fra trame, racconti, critiche ed emozioni.
Andammo avanti così per un annetto, nel corso del quale imparai sostanzialmente due cose: primo, che c'è un rapporto diretto ed inscindibile fra la riuscita di una serata- anche la più pretenziosa- e la qualità del cibo e del vino che circola fra i presenti; secondo, che le mie simpatie in fatto di libri si dirigevano compatte verso quelli dichiaratamente onesti. Quelli, cioè, che non ingannano il lettore, imbastendo in uno stile piatto e monocorde una sfilza infinita di banalità, dopo avergli promesso di svelargli i segreti dei massimi sistemi; quelli che non ricorrono a titoli astrusi, a copertine d'impatto, a premi letterari per fargli credere a tutti i costi che la sua formazione culturale non può dirsi completa se non passa attraverso di loro; ma quelli , cioè, che una volta scelto uno scopo, alto o basso che sia, si uniformano ad esso, in modo corretto, lineare, coerente. Onesto, appunto.
Da allora, ho sdoganato i cosiddetti "libri da intrattenimento", quelli che, per definizione, non rientrano nella letteratura alta e che, per anni, avevo letto di nascosto, magari nascondendoli dentro tomi dai titoli che ai critici letterari avevano scatenato emozioni su emozioni e che su di me facevano lo stesso effetto di una flebo di bromuro, tanto per rendere l'idea.
Perche, vedete, io non credo che un libro debba sempre e per forza far pensare. Anzi, dirò di più: quando ne ho letti due di fila, che mi fanno quell'effetto, sono così piena di pensamenti che ho l'urgenza di stempararli e scaricarli in qualcosa di dichiaratamente leggero ed evasivo.
L'unico limite che pongo, però, è che i patti siano chiari e che passino, per l'ennesima volta, attraverso il rispetto del lettore: il che, per un libro di intrattenimento, significa una bella trama e una scrittura che sappia sostenerla, senza troppi guizzi nè verso l'alto (che altrimenti sarebbe vano autocompiacimento), nè verso il basso ( che altrimenti sarebbe spazzatura).
La tredicesima storia è tutto questo- ed anche qualcosina di più. E' un racconto che ha al centro i libri e le storie e si sviluppa a cominciare dall'incontro delle due protagoniste, una anonima ed infelice libraia antiquaria e una celebre e patinata scrittrice di romanzi, che per un motivo che si intuisce sin dalle prime pagine, ha deciso di svelare il segreto della sua vita a questa giovane donna. Lo fa nell'unico modo che conosce, raccontando una delle innumerevoli storie che l'hanno resa famosa e le hanno permesso di sopportare il peso che si porta dentro dalla nascita, ma narrandola a modo suo- e cioè con un procedere sussultorio, che ora svela, ora nasconde, ora rivela. In breve, la giovane antiquaria decide di svolgere un'indagine personale, arricchendo la trama di personaggi e ambientazioni diverse, in un procedere parallelo che calibra perfettamente il ritmo lento della narrazione della anziana scrittrice con quello incalzante e frantoumato dell'azione della libraia. Il risultato è un romanzo avvincente che si legge d'un fiato e che, alla fine, lascia competamente soddisfatti, nel senso che non c'è nulla, ma proprio nulla, che non torni al suo posto e che non appaghi le aspettative del lettore, lieto fine compreso.
L'unica nota stonata viene dopo- quando, a libro chiuso, fate un giro virtuale per recuperare altri pareri tanto per rendervi conto di come butta il sentire comune, e vi accorgete che è tutto uno scomodare il romanzo gotico vittoriano- e Jane Eyre in particolare- attribuendo a quest'opera valenze che non ha e che, probabilmente, mai si era sognato di avere. il presupposto dell'onestà. così ben dimostrato nel romanzo, viene quindi preso a picconate dai suoi critici che trasormano, o meglio, manipolano la natura di quest'opera, facendo baluginare al lettore orizzonti in sè irraggiungibili, quasi che basti un'ambientazione nella brughiera e una citazione da Jane Eyre per far gridare al miracolo della quarta sorella Bronte.
Date retta a me: di sorelle, in questo libro, ce ne sono a sufficienza, e bastano a creare un romanzo d'atmosfera, che avanza sicuro lungo il disvelamento di una trama ben controllata da una narrazione ferma e salda, con personaggi mai sopra le righe e un ritmo narrativo capace di tenervi incollati alla pagina fino alla fine, sfidando sonno e lavori arretrati e bucati da stirare. Il tutto senza mai, dico mai, avanzare pretese di alta letteratura, ma sempre manentendosi nel solco di una rispettosa e puntuale soddisfazione delle aspettative preannunciate al lettore sin dal titolo, che presenta questo romanzo semplicemente come una storia, e niente di più: che distrae, avvince, appassiona e rincuora, esattamente come qualunque storia dovrebbe fare. E scusate se è poco...


Diane Setterfield
La Tredicesima Storia
I miti mondadori
6,00 euro