giovedì 30 luglio 2009

WASABI ICE CREAM




Ve lo avevo detto, no?, che bisognava che ci tirassi fuori qualcos'altro, da 'sto wasabi qua. Anzi, se proprio devo essere sincera, l'acquisto della famigerata pasta era stato ispirato proprio da un gelato al wasabi, mangiato a fine pasto nel ristorante giapponese più trendy della città- quello nella boutique, per intenderci, con tanto di autografo della Yespica in bella vista. Ed era dalla prima cucchiaiata che stavo pensando di provarci anche a casa, visto che, di tutto quello che avevamo scelto, l'unica portata riproponibile per le mie capacità e per i palati domestici sembrava essere solo quella.
More solito, appena entrata in possesso dell'ingrediente, mi sono dedicata a tutt'altro ( i 4kg e mezzo di mirtilli ibernati nel freezer lo dimostrano) e se non fosse stato per i bicchierini il povero wasabi sarebbe rimasto lì a marcire in dispensa, al pari di non so quanti altri ingredienti per cui avrei dato un braccio per averli e di cui oggi ho dimenticato l'esistenza.
A farla breve: sono partita dal gelato alla crema di Santin, senza il latte condensato: per un bel po' sono stata tentata dall'usare panna e latte di soia, ma temevo disastri sul fronte della cremosità. Il risultato è stato molto simile a quello del ristorante ( azzarderei anche un "più buono", a dirla tutta), a parte il colore, che da loro era verde wasabi e qui è venuto giallino. Invece di rassegnarmi al magico potere dei coloranti,  ho iniziato ad aggiungere wasabi come una forsennata,- ussegnur, e perché non viene verde????- con l'unico risultato che vedete nella foto. In compenso, il sapore ne ha guadagnato- o meglio: così presumo, viste le lacrime agli occhi degli assaggiatori. Prima di rantolare, mio marito ha detto "mettine un po' meno, la prossima volta", ma l'amico superstite ha promosso l'esperimento a pieni voti.
Per cui, ve lo ri-giro qui, con qualche annotazione in fondo

GELATO AL WASABI




BASE PER 500 GR DI GELATO
250 g di panna fresca
250 g di latte
2 tuorli
60 g di zucchero semolato

1 cucchiaino abbondante di wasabi in pasta

Si procede come per un normale gelato alla crema: si montano i tuorli con lo zucchero, mentre si portano ad ebollizione il latte e la panna. Quando i tuorli sono spumosi, si versa il liquido bollente a filo, si mescola bene e si rimette tutto sul fuoco, portando alla temepratura di 85 gradi. Si lascia raffreddare e si mette in gelatiera, seguendo le istruzioni
Io ho aggiunto il wasabi a caldo, stemperando il cucchiaino in poca panna e latte bollenti e aggiungendo poi il tutto al resto del liquido.

considerazioni: presumo che il wasabi in pasta non vada bene. Per il colore, intendo, sul sapore ci siamo. So che ne esiste una verisone in polvere, ma io quella avevo e quella ho usato. Ma al prossimo tentativo, provo con la polverina...
Abbinamenti: ovviamente, trattandosi di un esperimento, lo abbiamo mangiato così, cercando di studiare con che cosa potesse accoppiarsi. L'accostamento estemporaneo dei mirtilli, per esempio, non è affatto male ma noi continuiamo a vederlo come pendent di qualche pesce grasso- lo sgombro su tutti.
Buona giornata
Alessandra



mercoledì 29 luglio 2009

L'Ultimo Chef Cinese - Nicole Mones

Vi ricordate l'ultima rece, quando si parlava dei libri "senza pretese" e si diceva che, per molti di loro, il maggior pregio è proprio quello di non voler ingannare il lettore? Ecco, dimenticatevi tutto. O meglio: recuperate tutto quello che è stato detto e metteteci un bel segno meno davanti. Perché "L'ultimo chef cinese", nuova fatica letteraria di Nicole Mones non ha nulla, ma proprio nulla, che lo segnali come libro "onesto", almeno secondo i parametri che piacciono a me.
L'autrice è una ex imprenditrice tessile che ha fatto fortuna nella Cina Maoista degli anni Settanta e che, dopo essersi assicurata quel che si dice una comoda vecchiaia, ha tesaurizzato la sua conoscenza del Paese e si è trasformata in una scrittrice di romanzi che hanno la Cina sullo sfondo. Questo è, più o meno, il sunto di quanto si legge nella terza di copertina e già qui ci sarebbe da muover equalche lieve appunto all'estensore della nota, non foss'altro per chiarire bene che cosa si intenda per "scrittrice" e che cosa significhi "romanzo". Perchè, se con il primo termine, si intende un'artista donna che adopera la penna per stimolare la fantasia del lettore, suscitare riflessioni, evocare emozioni, Nicole Mones soddisfa questi requisiti solo in relazione al sesso- perché pare non ci siano dubbi sul fatto che sia femmina. E se per romanzo si intende una storia basata sull'intreccio della trama, sulla complessità dei personaggi, su scelte stilistiche adeguate alla materia trattata, allora, anche in questo caso, siamo fuori strada. Del tutto. E se proprio vogliamo cavillare sul classico pelo dell'uovo, anche "la Cina" dello sfondo è un riferimento impreciso, visto che della Cina si ha solo una visione stereotipata, immobile, superficiale e laccata: una specie di cartolina, se rendo l'idea, dove l'immagine riprodotta ha subito tante e tali modifiche da renderla del tutto dissimile dalla realtà- e del tutto confondibile con tutte le altre che, al suo pari, sono passate sotto la stessa patina di trucco.
Ad essere cattivi, verrebbe da dire che, più che un romanzo, L'ultimo chef cinese sia un foto romanzo, per giunta senza foto ( e, prima che vi disperiate, tranquilli: sarebbero state fotoshoppate dalla prima all' ultima). Una storia banale, da latte alle ginocchia, di cui si intuisce il finale sin dalla terza pagina, narrata in modo piatto, scolastico, manierato, con dialoghi talmente melensi che le uniche impennate si registrano nella curva glicemica del lettore. Lei è una giornalista gastronomica americana, rimasta precocemente vedova, lui uno chef cinoamericano, tornato in Cina per dare nuovo lustro alla cucina imperiale. In mezzo, un riconoscimento di paternità e una gara fra cuochi, a scandire il ritmo, gli stralci di un antico trattato sull'arte culinaria della Città Proibita e , in fondo, sei pagine di nota dell'autrice sulle laboriose ricerche di cui il libro è frutto. Ed è qui, vedete, che sta la presa in giro. Perché senza questa nota, questo volume avrebbe fatto la fine di molti altri, dal comodino alla rumenta, senza tanto scalpore. E invece, dopo aver letto queste pagine, mi è venuto un nervoso, ma un nervoso, ma un nervoso che il libro finirà lo stesso nella spazzatura, ma non prima di aver subito l'onta di questa rece pubblica. Perché non si può prendere in giro il lettore, millantando una conoscenza approfondita di una tradizione millenaria, per giunta frammentata nei mille rivoli delle tradizioni locali, basandosi solo su una serie di cene di lavoro; non si può prendere in giro chi da anni bussa alle porte di redazioni di riviste, forte di una conoscenza solida e approfondita, dicendo che dopo aver cominciato a scrivere di cucina cinese per Gourmet (Gourmet, capito, non il bollettino parrocchiale) ha avuto l'opportunità di entrare a contatto con il mondo della ristorazione di questo Paese; e infine, non si può sostenere con arroganza di essere riusciti a riprodurre " le citazioni di un falso testo fondamentale di cucina che doveva essere ammirato da tutti" (p. 328) e trovarsi di fronte a pagine che evocano lo stesso misterioso fascino dei testi della scuola alberghiera, dove le citazioni che spiccano sono un "il piacere è tutto mio" fino ad un famigerato "anche no"(p.52). Lascio a voi, infine, il giudizio sui segreti culinari e sullo stile con cui essi ci vengono svelati: " i gamberetti al vino nello stile di Shangai, per esempio: al momento di mangiarli, i gamberi erano ancora vivi, ma così ebbri di vino che rimanevano assolutamente immobili al tocco dei bastoncini" (p. 70).E sorvolo sull'arricchimento delle conoscenze in materia culinaria: oltre lo yin e lo yan, non si va.
Alla fine, l'unica consolazione è il titolo: perché quello, a differenza del libro, lascia una speranza. E cioè che questo chef cinese, per quanto alla fine felicemente accoppiatosi con la giornalista (ops, vi ho rovinato la sorpresa), non prolifichi. O,quanto meno, non abbia figli vogliosi di seguire le orme del padre e del nonno e del bisnonno e così via, quasi fossero dei SuperPippo dagli occhi a mandorla. E che quindi, resti davvero l'ultimo, in tutti i sensi
A domani
Alessandra

lunedì 27 luglio 2009

CIOCCOLATO BIANCO,WASABI E FRUTTI DI BOSCO





Ho capito che non avrei mai dovuto giudicare i cibi dai loro colori quando, secoli fa, all'epoca in cui a Genova inziavano a spuntare i primi ristoranti cinesi, io e una mia amica decidemmo di lanciarci nella prima esperienza etnica della nostra vita. Mentre attendevamo, titubanti, di varcare le Colonne d'Ercole del mondo gastronomico allora conosciuto, a botte di riso alla cantonese, pollo al limone e gelato fritto ( ed è inutile che storciate il naso: tanto non ci casco: alzi la mano chi non si è macchiato di simili ordinazioni, almeno una volta), mentre aspettavamo di essere servite, dicevo, arrivò il cameriere con due salsine. Alla prima, un liqudo denso e mucillaginoso, da un odore dolciastro e vagamente nauseabondo, lanciai la prima delle mie famose occhiate inceneritrici, quelle che, tradotte nel linguaggio comune, significano: ok-per-quest-volta-è-capitato-e-passi-ma-col-cavolo-che-mi-rivedi. (per inciso, la seconda di queste famose occhiate fu riservata a quelo che poi è diventato mio marito. Superfluo aggiungere che sono diventata una salsa di soia addicted. E ancor più superfluo aggiungere che, visti, gli esiti, le famose occhiate sono finite in cantina, con l'ordine di restarci per sempr. Quando si dice tertium non datur...)
La seconda salsina, invece, era uno spettacolo: un pastone denso, di un rosso lacca lucido, liscio, setoso, che diceva mangiami al solo vederlo. E così, fra una chiacchiera e l'altra, non ho resistito alla tentazione e ho afferrato il cucchiaino. E, già che c'ero, l'ho riempito ben bene. Dopodiché, l'ho infilato in bocca.
Vedete, sebbene io abbia facilità di espressione e mi destreggi felice fra le parole, non sono mai riuscita a descrivere che cosa sia esploso nella mio palato, nel preciso istante in cui il famigerato cibo è entrato in contatto con le mie mucose. Dirvi che avevo il fuoco nella bocca, nella gola, nelle orecchie, nel naso è riduttivo e se mi avessero assicurato che in qel momento stavo sputando fiamme da tutti i pori, stile Grisù al ristornate cinese, non avrei esitato a crederci.
Non so dire quanto tempo sia passato e cosa abbia detto, nel frattempo, ma ricordo che l'unico imperativo che martellava nel mio cervello era che dovevo subito mangiare qualcosa: e, in mancanza di pane, afferrai i due grissini torinesi mal cotti che erano appoggiati sul mio piatto e li morsicai con tutte le forze che mi erano rimaste.
I denti, stranamente, li ho salvati. In compenso ci ho rimesso il palato e la reputazione, nel senso che una "lacerazione palatale da bastoncini cinesi" al Pronto Soccorso di San Martino non l'avevano ancora vista. Ad essere sinceri, il medico di guardia avrebbe voluto ricoverarci entrambe in psichiatria, visto che la mia amica non aveva smesso un minuto di contorcersi dalle risate. Alla fine, però, me la cavai con una medicazione, tre giorni di silenzio e una specie di lumacone in calore incastrato nell'arcata superiore per una settimana.
La lezione, però, l'ho imparata bene: tanto bene che quando, dieci anni dopo, con la stessa amica, abbiamo ricevuto il battesimo della cucina nipponica, col cavolo che mi sono avvicinata a quella turgida gocca verde piselli che luccicava a lato del mio sushi. L'ho guardata, l'ho ammirata, l'ho sollevata delicatamente con i bastoncini e l'ho lasciata tutta alla mia amica. E stavolta, ho riso io: perché gli ingredienti saranno diversi e le tecniche differenti, ma la vendetta si consuma sempre fredda- oriente compreso...


CIOCCOLATO BIANCO, WASABI E FRUTTI DI BOSCO



ciocco bianco e ganache wasabi


ricetta tratta da Bicchieri tutto cioccolato di Jose Marechal, Bibliotheca Culinaria editore: l'originale lo trovate qui
Qui sotto, invece, le mie modifiche, che consistono sostanzialmente nella sostituzione del coulis di fragole con della frutta di bosco (criterio della stagionalità, null'altro) e nell'aumento delle quantità del cioccolato per la ganache.

Per dodici bicchierini
per la mousse al cioccolato bianco

1 foglio di colla di pesce
300 g di cioccolato bianco
500 ml di panna

per la ganache al cioccolato bianco e wasabi
200 g di cioccolato bianco
un cucchiaino colmo di wasabi
150 ml di panna

Si inizia preparando la mousse.
Ammollare il foglio di gelatina in acqua fredda. Spezzettare il cioccolato (più i pezzi sono piccoli, meglio è) e metterlo in un pentolino col fondo spesso, in un bagno maria a fuoco bassissimo.
In un altro casseruolino, scaldare 100 ml di panna e sciogliervi la colla di pesce, ben strizzata e asciugata. Mescolare bene con un cucchiaio di legno, fino allo scioglimento completo. Rimettere il pentolino sul fuoco e portare ad ebollizione, dopodiché versare il liquido sul cioccolato: non importa se non è ancora fuso, anzi, probabilmente non lo sarà e va bene lo stesso. Si scioglierà a contatto con la panna bollente, sempre che voi mescoliate bene, meglio se con una frusta. Quando il cioccolato si è completamente sciolto ( se è il caso, continuate a lavorare a bagno maria), lasciatelo raffreddare, mescolando ogni tanto per evitare che il composto "tiri". Quando è freddo, aggiungete il resto della panna montata, incorporandola lentamente, facendo attenzione a che non smonti.
Mettete il composto in una siringa da pasticcere, riepmite dodici bicchierini e mettete in frigo per un'ora almeno

Per la ganache al cioccolato, stemperate in poca panna il wasabi, poi aggiungetelo al resto e portate ad ebollizione. Versate la panna bollente sul cioccolato spezzettato e fatelo fondere del tutto, mescolando con una frusta. Lasciate raffreddare bene, prima di versarlo sulla mousse al cioccolato bianco- a meno che non vogliate ottenere l'effetto della foto, classico prodotto di ansie culinarie per cui ogni tempistica va a farsi benedire, sotto l'urgenza del "vediamo come viene". Decorare con frutti di bosco freschi
In frigo fino al momento di servire.



Detto fra noi, qualche dubbio ce l'avevo e ho trattenuto il fiato per tutta la durata dell'assaggio: beh, che ci crediate o no, è piaciuto pure alla suocera. Meglio di così...
Buona giornata
Aessandra





mercoledì 22 luglio 2009

Cestini di frolla al cacao con crema al cioccolato bianco e al cocco

di Alessandra

cestini ciocco cocco

Breve sunto della giornata di oggi
ore 7.03: sveglia in ritardo, corro in cucina, colazione per il marito, finisco di pulire la cucina dai bagordi di figlia et nipote della sera prima, sveglio il marito, attacco lavatrice, tolgo la roba stesa, attacco il ferro, arriva il marito, colazione con lui, riprendo il ferro, intavolo discussione dalla stireria al bagno ( tutt' altra parte della casa, in più nell'armadio a muro), prima botta di nervoso, il marito esce, riprendo a stirare, guardo l'ora, porca miseria, sono in ritardo.
ore 8.00: esco dalla doccia, mi vesto, lascio colazione per figlia e nipote e affronto pargoli dormienti con le istruzioni per la giornata, dando un perfetto esempio di conversazione con cadaveri: "alle nove viene la zia robi, capito???? la zia robi è tua madre, capito???? quindi , alle nove suonerà il campanello, capito???? quindi, le dovete aprire, capito??? la prox volta chiamo una medium, così magari rispondete, capito?????" seconda botta di nervoso
ore 8.15 esco di casa, barcollando sotto il peso di fascicoli alternati a riviste di cucina- ottimo rimedio per la tutela della privacy- borsa firmata da una parte, sacchetto della rumenta dall'altro e il mio ultimo pensiero è: " non hanno la chiave, amen, si tireranno dietro la porta"
0re 9.00 arrivo in ufficio, dopo aver rischiato almeno 4 multe per 1. abuso di parcheggio (ho la macchina di mio padre e da noi o hai il tagliando o ti fanno la multa); 2. scarico rumenta al di fuori degi orari stabiliti ( fra le 3 e le 4 di notte); 3. invio di sms alla dani che non riesce a postare da bormio 4. le solite infrazioni buon peso su cui sarò più precisa fra circa due mesi, quando mi verranno recapitate le varie multe, con tanto di foto et filmati della sottoscritta il flagranza di reato. delle botte di nervoso ho perso il conto
ore 9.01 telefono alla dani, due minuti veloci mentre aspetto l'ascensore
ore 9.20 l'ascensore mi aspetta da 19 minuti.
ore 9.21 mi blocca il portiere, con fare cospiratorio, per chiedermi se possiamo fare una consulenza gratuita ad uno che conosce perché- e qui il tono di voce si abbassa all'improvviso-... sai, è una cosa un po' imbarazzante... - tono di voce da cospiratore- ... non so se ha piacere che si sappia- siamo ormai al sussurro-... ma...è un operaio...
ore 9.25 lascio il portiere confuso, dopo avergli assicurato che sì, la consulenza gratuita c'è, per il suo amico, e già che ci siamo gliene facciamo anche un'altra, su come scegliersi le amicizie, da oggi in poi e mi inciampo nel collega simpatico, con cui urge aggiornamento sulle ultime vicende dell'ufficio
0re 10.00 siamo al primo capitolo del secondo tomo dell'aggiornamento ("chi si è messo con chi") quando squilla il cellulare: sto per rifiutare la chiamata, vedo che è da casa, faccio appello al core de mamma e rispondo :
"mamma, dove sono le chiavi?"
Che chiavi???? sul più bello dell'aggiornamento, questa qui mi rompe con le chiavi??? una che, per inciso, non sa neanche come sia fatta una porta, che il colosseo al confronto è Fort Knox, mi viene a chiedere delle chiavi, proprio adesso?????
" Senti, tiratevi dietro la porta e uscite, su, dai, lo fai di continuo, dov'è il problema???"
" E' che non possiamo uscire, mamma: ci hai chiusi dentro"
Ussegnur
" e la zia è fuori e è da mezz'ora che suona"
Ussegnur alla seconda.
ore 10.05 sono di nuovo in macchina, percorso inverso, i fascicoli tutti spatasciati sul sedile di dietro che mi ci vorrà una settimana per rimettere tutto a posto, la segretaria col telefono a mezz'aria- vengo domani, facciamo tutto domani
ore 10.45 apro la porta, fra le risate di quei due disgraziati , 'incavolatura di mia sorella ( tre ore che suono, ma glielo hai detto che venivo a prenderli alle nove etc etc) e il ghigno di compassione della lavascale che , per l'occasione, ha pulito solo il mio pianerottolo, per tutto il tempo
ore 11.00 i due disgraziati non hanno fatto colazione, né hanno messo in ordine la camera, né si sono lavati, né si sono vestiti, né. Punto
ore 12.30 con i figli più o meno presentabili, pranziamo nel ristorante più pretenzioso di Genova. Pausa pranzo radical chic, inframmezzata da " stai dritta con la schiena" "marco, ti ammazzo" " a me di 'sta roba non piace niente" "zia, tu che sei un'esperta, cosa ne dici se mangio una bistecca ai ferri?" " non mangiare tutto il pane" " io prendo questa cosa qua, però metà l'avanzo" " possiamo una volta non fare delle figure di schifo, no, dico, una volta sola, per la mezz'ora che staremo qui dentro?"
ore 14.00 ci servono.
ore 14.10 ce ne andiamo. Il conto, neanche a dirlo, è da paura...
il resto è tutto un "precipitando", per cui ve lo risparmio. Vi dico solo che, quando son rientrata a casa, avevo urgente bisogno di qualcosa che mi tirasse un po' su.
E meno male che ieri sera avevo proditoriamente occultato uno di questi cosini qui, che avrei chiamato "cestini di frolla etc etc" e che il genio poetico che ho sposato ha prontamente ribattezzato "cessini" ( con la bocca piena, per inciso, ma piuttosto che darmela vinta...)
Comunque sia, sono strabuoni- e come tutte le cose stra buone, hanno la controindicazione che si finisce di mangiarli solo quando non ce ne sono più....e non si dica che non vi ho avvisato!!!


CESTINI AL CIOCCOLATO BIANCO E AL COCCO

DSC_2418
in principio furono le "crostatine al cioccolato bianco e cocco, pubblicate nel Libro d'oro del Cioccolato- Mondadori). dopodiché, intervennero le mie solite modifiche

pasta frolla al cacao- 300 g di farina; 200 di burro; un uovo intero grosso ; 100 g di zucchero; 40 g di cacao amaro

crema al cioccolato bianco e al cocco
4 cucchiai di zucchero semolato
5 cucchiai di maizena
mezzo litro di latte
3 uova grose ( o 4 medie)
300 g di cioccolato bianco
1 cucchiaino di essenza di vaniglia
5 dl di panna fresca
200 g di cocco secco a scaglie ( io ho usato la farina di cocco, forse è meglio, nel formato mignon)


Si prepara la sfoglia, la si stende sottile e con essa si rivestono 24 stampini da tartellette mignon. Cottura in bianco a 170 gradi per una decina di minuti
Preparare la crema al cioccolato: stemperare la maizena nel latte, aggiungendolo a poco a poco e metterlo sul fuoco: portarlo a bollore, mescolando sempre ( consiglio da non trascurare: io ho buttato via tutto, la prima volta). Montate le uova ocn lo zucchero e versatevi il latte caldo a filo come per fare una crema inglese. Rmetterlo sul fuoco (meglio lavorare a bagnomaria), portarlo a 85 gradi ( io vado ad occhio, quando vedo che è caldo ma non bolle è ok) e scioglietevi dentro il cioccolato grattugiato, mescolando bene con un cucchiaio di legno. Aggiungere la vaniglia ( io ho usato i semi, per cui li ho messi da subito nel latte con la maizena). Lasciar raffreddare benissimo. Montare la panna, aggiungervi il cocco, incorporandolo con un cucchiaio e poi unirla alla crema di cioccoalto bianco. riempire i cestini e servire

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Secondo me, è necessario aggiunger eun po' di colla di pesce nella crema, come si fa con le bavaresi: si ammolla la colla di pesce in acqua fredda, si strizza bene, la si fa sciogliere nel latte e poi si filtra. Ieri, che era un'altra giornata-no, mi si è tutta raggrumata da far schifo, per il semplice motivo che ho preparato la crema in due tempi, come da ricetta, e al momento di aggiungere la panna la crema al cioccolato non era affatto densa come da foto ( toh, che strano). Ho cercato di rimediare, aggiungendo la colla alla crema fredda e la prima volta è stato un disastro. Allora ho filtrato tutto, ho recuperato il salvabile e ho ri-proceduto, con esiti migliori. Nulla vi vieta di aggiungerci anche un po' di salsa al cioccolato fondente.
A domani
Alessandra



martedì 21 luglio 2009

quiche di zucchini, feta, limone e menta

 


 

Qualche anno fa, all'epoca in cui faceva l'inviato de La Stampa per il Giro d'Italia, Alessandro Baricco capitò nel luogo dove si trova la casa di famiglia di mio marito. E tale fu lo stupore per il clima che trovò, che dimenticò ogni dovere cronistico-sportivo per dedicare l'intero articolo alle brume ed alle nebbie che gravano perenni sui tetti del paese, levando alti lamenti per la sorte dei suoi infelici abitanti.
Apriti cielo: all'articolo seguì una sollevazione popolare, con tanto di repliche sulla carta stampata e in televisione, da parte di tutti i residenti, dai più ai meno illustri, che richiesero la cenere sul capo dal povero Baricco, reo d'aver detto quello che, per noi genovesi, equivale a un omaggio a Monsieur Lapalisse, e cioè che qui piove- e di lungo.
Quindi, per non riaccendere ulteriormente gli animi, dirò in forma pubblica e solenne che nel paese di mio marito c'è il sole. Sempre. Fatta eccezione, ovviamente, per quei 365 giorni l'anno- 366 i bisestili- quando bisogna uscire con l'ombrello- ed aprirlo pure.
Sia chiaro: chi scrive adora la pioggia. Anzi, tanto per fare outing fino alla fine, io detesto il caldo, l'estate ed anche il sole, se al mare. So di essere l'unico esemplare vivente al mondo ad avere simili gusti, ma siccome pare non ci sia cura, ho imparato ad assecondarli, facendo le valigie per l'amata Albione allo spuntare dei primi oli solari, fin quando lo stato civile me lo ha permesso e spostandomi al di là del Turchino una volta impalmato il Signore del Feudo.
Quindi, a conti fatti, io qui ci sto bene. E sono certa, anzi certissima, che, una volta fatta l'abitudine ai cigolii della spina dorsale e all'indomabile rigonfiamento delle chiome, vi trovereste bene anche voi, non foss'altro che per i tre motivi che vi elenco qui sotto:

1. l'orto: vi ricordate quando, alle Medie, dovevate imparare a memoria tutte le fasce tropicali, da quella equatoriale a quella artica, tenendo bene a mente che ogni passaggio avveniva in forma non traumatica e graduale? Bene, qui facciamo eccezione. Siamo nell'unico posto al mondo, dove, passata la barriera del casello, il clima si trasforma da macchia mediterranea a foresta pluviale. Il che, tradotto in termini agronomici, significa che quelle che a voi sembrano prugne sono in relatà mirtilli e quel campo di ninfee che evoca laghetti giapponesi e quadri di Monet è solo il più prosaico basilico della suocera. E sorvolo sulle dimensioni delle zucche: mi limito a dire che se la famosa fatina ne avesse usata una delle nostre, per il suo più celebre incantesimo, Cenerentola sarebbe andata al ballo su un TIR...


2. l'immediato zittimento della zampogna del custode, ex pastore calabro che lenisce la saudade soffiando quel che resta dei suoi polmoni nelle canne di una pelle di pecora. Perchè, ovviamente, noi qui non ci facciamo mancare niente: e come abbiamo il roseto con ogni tipo di rosa che sia mai spuntata nel creato, dal quarto giorno in poi, l'ortensiario con ogni gamma di colore, dal blu al rosso, passando per l'indaco, il lilla e il violetto, il pozzo e il bersò e la panchina in ferro battuto, abbiamo anche il suono della zampogna sullo sfondo, in puro stile prima bucolica. Con la piccola differenza che i custodi calabri non si chiamano nè Titiro, nè Melibeo, nè Amarillida, bensì Carmelo, Maruzza, Pasquale e Clementina gli adulti e Maicol, Gessica, Kevin e Sindy i piccoli (la grafia è fedele alla registrazione anagrafica: ho anche le prove, se le volete). E che il suono della zampogna è una specie di medley fra il grugnito di un'orda di cinghiali in calore e un trionfo di trombette da stadio, inframmezzati dai rantoli del custode, in un'interpretazione di rara intensità e di pura sofferenza, che recupera dalle profondità delle domande di senso interrogativi arcani ed inquietanti - dal "non è che muore????" al "quand'è che muore????", per intenderci

3. si cucina. Un po' per forza ( vedi alla voce orto anarchico), un po' per dovere (vedi alla voce marito) un po' per fare un uso dei coltelli più urbano e più creativo di quello che, a volte, mi verrebbe in mente, fatto sta che qui dentro i fornelli sono accesi a tutte le ore.
Quello che ne esce è il trionfo della cucina semplice, dei sapori di una volta, della famiglia intorno alla tavola, della tradizione e dei ricordi- e pazienza, se fuori piove: si sta così bene qui....


QUICHE DI ZUCCHINE FETA MENTA E LIMONE


quiche zucchini limone menta


La versione della foto ha una base di pasta sfoglia, ma nulla vi vieta di preparare un guscio di brisèe o, meglio ancora, di pasta al vino (senza burro): l'essenziale è che resti un sapore neutro, non aromatizzato, intendo, in modo da far risaltare meglio il ripieno, che è davvero un trionfo di profumi

Per la versione più raffinata
250 ml di panna
3 uova grandi ( o 4 medie)
100 g di feta
3 zucchine
menta fresca
la scorza grattugiata di un bel limone
sale
pepe bianco

Per la versione rustica, sostituire alla panna 200 g di ricotta.

Si mondano le zucchine, si tagliano a fettine non troppo sottili e si fanno andare in padella con olio EVO e sale: attentissimi a non farle nè friggere, nè stufare. Portatele a cottura aggiungendo un Mestolino di brodo alla volta, senza che il liquido le ricopra completamente, e a recipiente scoperto. Quando sono croccanti, sono pronte. Pochi minuti prima di toglierle dal fuoco, aggiungete le foglioline di menta

mescolate la panna alle uova, sbattendo rapidamente con una forchetta, aggiungete la feta sbriciolata e gli zucchini, quando si sono intiepiditi. Grattugiatevi sopra la buccia del limone, date una bella macinata di pepe bianco, aggiustate di sale e riempite il guscio di pasta.
Se usate la ricotta, incorporate le uova ad una ad una e lavorate il composto con un cucchiaio o una forchetta( non con le fruste, intendo: non deve montare). Poi, procedete come sopra
In forno a 200 gradi per 30 minuti minimo

Se invece preferite la misura delle foto- l'ideale per un buffet- dovete ridurre le uova a 2 grandi o 3 medie, e i tempi di cottura: 15 minuti dovrebbero essere più che sufficienti: comunque, quando sno gonfie e dorate sono pronte.
A domani

 

giovedì 16 luglio 2009

LA STUPENDISSIMA (TARTE AL LIMONE E COCCO) O TORTA CHE LIPIDINE

 

Fra le innumerevoli piacevolezze archiviate sotto la voce "gioie della maternità", noi ci godiamo da qualche anno l'avversione della creatura per la cucina in generale- e quella di sua madre, in particolare. A scanso di equivoci, la disgraziata mangia e anche in modo abbastanza giusto: rispetta gli orari dei pasti, non beve bibite gasate, si tiene a cauta distanza dalle merendine e negli anni ha capito che, quando gli alimenti si accoppiano è perché gli altri vivano felici e contenti e non perché perdano ore a separare accuratamente la carne dalla passata di pomodoro e la cipolla dai chicchi di riso. Se poi, nel giro dei prossimi dieci anni, dovessimo mai riuscire a farle capire che ingoiare della roba verde, ogni tanto, non la trasforma automaticamente in una specie di hulk con l'apparecchio ortodontico, ma la rende più sana e più bella, potremmo quasi cantare vittoria.
Anche sul fronte pratico, la ragazza avrebbe dei numeri: le performance ai fornelli si contano a malapena sulle dita di una mano e sono costate ogni volta lacrime e suppliche da parte della sottoscritta, ma i risultati hanno avuto un che di sbalorditivo. "ho preso dalla nonna", ha commentato ogni volta, fra il travaso di orgoglio di mia madre e le ghignate al mio indirizzo del marito.
Il problema, come dicevo, riguarda la cucina materna: nel senso che, per mia figlia, o io non cucino mai ( giuro: lo sostiene impavida di fronte a testimoni) oppure cucino cose che non le piacciono. Su questo fronte, mi è toccato sopportare di tutto: dall'assistere alla richiesta di una terza fetta di torta Cameo, alla festa di compleanno dell'amica inglese, al sentirle dire, come esempio di proporzione inversa, " più la mamma cucina, meno noi mangiamo" ( questa ha fatto il giro di Genova, anzi: se nel frattempo avesse assunto i contorni di una leggenda metropolitana, tranquilli, è tutto vero ed è successo qui, in questa casa, sotto i miei occhi).
Ultimamente, però, la cosa ha assunto un nuovo risvolto, manco a dirlo ancora più imbarazzante, non foss'altro perché pubblico ed indecoroso- e cioè l'abbuffata in grande stile dei dolci che preparo per gli amici e che il galateo vorrebbe che si lasciassero nelle loro case e non che finissero negli stomaci di chi li porta in dono. Ogni volta, è un tormento: sguardi languidi lanciati all'ultima fetta, braccia tese con il piatto vuoto, sgomitate per arrivare prima e, come ciliegina finale, un lamentoso " per me, queste cose così buone la mamma non le fa mai" che ha il potere di intenerire anche il più goloso ed affamato dei nostri amici. Ovviamente, io vorrei sprofondare, dalla vergogna: ma a nulla valgono i calci sotto il tavolo, le minacce velate dal tovagliolo, le promesse "che giuro che quando siamo a casa te ne faccio dieci, di 'ste robe qui" : se ha deciso che il dolce le piace, non c'è nulla, ma proprio nulla, che possa fermarla. Anzi, ogni volta è un'escalation verso ulteriori brutte figure: ora, per esempio, siamo arrivati al doggy bag, per cui non solo mangiamo fino a scoppiare, ma ci facciamo preparare anche il pacchettino per la colazione del giorno dopo, con me che sempre più debolmente cerco di oppormi e gli amici sopraffatti dai sensi di colpa, per togliere il cibo di bocca a 'sta povera ragazzina, trascurata dalla mamma.
E così, domenica sera siamo rincasati a notte fonda, con il nostro pacchettino di stagnola nelle mani. E lunedì mattina, accanto ai resti della sera prima, sul tavolo della colazione c'era la replica della stessa torta, solo più fragrante e più profumata, come conviene alle torte appena uscite dal forno. Solo che stavolta era rotonda. E, come ben sanno tutti i grandi esperti di cucina, se c'è una cosa che influisce sul sapore è la forma dello stampo. E le torte quadrate, si sa, sono più buone delle altre. Motivo per cui, gli avanzi sono stati spazzolati in un battibaleno e la replicante ce l'ho ancora semi intatta sul bancone della cucina. Però, almeno stavolta, un commosso "grazie mamma" me lo sono beccato- e , di questi tempi, è meglio che niente....

TARTE AL LIMONE E AL COCCO

tarte limone e cocco

la fonte è Kitchen, Marie Claire, ma ho apportato tante e tali di quelle modifiche che ormai l'originale è solo un ricordo

pasta frolla ( io uso la mia ricetta, che prevede 300 g di farina, 200 di burro, 100 di zucchero, 1 uovo, la buccia grattugiata di un limone e un pizzico di sale. Lavoro in fretta, stendo la pasta nella tortiera e metto in frigo, il tempo per preparare il ripieno, non di più)
per il ripieno:
180 g di burro a temepratura ambiente
300 g di zucchero ( ridotto drasticamente a 200- e va bene così)
4 uova intere, grandi
la scorza grattugiata di un limone ( l'originale diceva due cucchiaini, io preferisco abbondare)
il succo di mezzo limone
90 g di cocco grattugiato
uno yogurt alla vaniglia ( l'originale prevede uno yogurt bianco e una bustina di vanillina, fate voi)

Montare il burro a crema con lo zucchero e aggiungere le uova, ad una ad una, poi lo yogurt, il succo e la scorza di limone e in ultimo il cocco. Versare la crema nello stampo e far cuocere a 180 gradi per almeno mezz'ora: la superficie deve essere appena appena brunita. Il ripieno rassoda a contatto con l'aria, quindi non preoccupatevi, se vi sembra molle.
Lasciate raffreddare bene e poi spoverate con abbondante zucchero a velo

tarte limone e cocco

buon appetito
alessandra

lunedì 13 luglio 2009

Double mint sauce con cosciotto di agnello





Confesso che ho sempre fatto una fatica bestia a far capire Leopardi ai miei alunni: per quanti sforzi facessi, infatti, non riuscivo mai a far arrivare a quel branco di adolescenti fra l'annoiato, l'incavolato e lo svanito la profondità della sofferenza dell'uomo, la sua sensibilità raffinata e complessa, la desolazione di una solitudine tanto più opprimente quanto più forzata. "E' un povero sfigato, prof", mi ripetevano di continuo, facendomi piombare nella frustrazione più cupa, con tanto di metaforiche testate nel muro e inevitabili, lancinanti, interrogativi, che andavano dal "chi me lo ha fatto fare" al più inquietante "dov'è che sbaglio".
Alla prima domanda, ho risposto dieci anni fa, con un bello "sbam" della porta- non troppo metaforico- sulla faccia del provveditore, rinunciando per sempre a quella che pensavo sarebbe stata la mia unica e vera professione; per la seconda, invece, si è dovuti arriviare a domenica, quando la suocera, dopo la consueta puntatina in campagna, mi ha sommerso- per nulla metaforicamente- di tutti i prodotti del suo orto. E vi giuro che, dopo una mattinata passata a pulire la cucina, a sistemare il frigo, a svuotare gli armadietti e ad aspettare Mastrolindo per i complimenti di rito trovarsi la casa invasa da mirtilli, zucchini e menta non è stato per niente divertente.
Il problema è che l'orto della suocera non è come tutti gli altri orti normali, dove la produzione è scandita da regole più o meno fisse, tipo il ciclo delle stagioni, per esempio, o l'umidità del terreno o tutto quanto fa manuale da perfetto giardiniere. Nossignori, troppo semplice: noi abbiamo un orto umorale, che produce quando gli gira e, soprattutto, quanto gli gira. E a questo punto, aggiungere che la quantità dei suoi frutti non è mai in accordo con le nostre esigenze è del tutto superfluo.
Per dire, io stavolta stavo godendomi il bloggo. Che non è 'sta roba su cui scrivo, ma ne è semmai la conseguenza nefasta, visto che, passati gli entusiasmi dei primi tempi, la voglia di cucinare si è estinta, senza nessuna speranza di ripresa. Stranamente, in famiglia la cosa è stata accolta con serenità, anzi, azzarderei con sollievo e anziché tentare di rianimarla, è stato tutto un fare a gara a chi trovava il take away più sfizioso o il ristorante più carino. Tanto che mi stavo convincendo che, dietro tutto questo daffare, non ci fosse il terrore della ripresa degli esperimenti culinari, quanto un sincero e spassionato amore nei confronti della sottoscritta, bisognosa di riposo e di attenzioni.
Sul più bello, ovviamente, è arrivata mia suoc...ops, l'orto di mia suocera, con la roba di cui sopra: ed è stato allora, di fronte a mirtilli che rotolavano dovunque, zucchini che pungevano, foglioline di menta che vomitavano terra da tutte le parte, che ho avuto il mio primo, unico, vero contatto viscerale con la carogna leopardiana- quella dei giorni migliori, per capirci, quando stava inchiodato immobile nel letto, con gli occhi incollati dalla cispi, la schiena zavorrata dalla gobba, il respiro bloccato dall'areofagia notturna a mitraglietta e la madre fuori che urlava " e che ti alzi, giacomo, che te li dò io i paralipomeni", e- in mancanza di mogli, figli e fidanzate- non restava che prendersela con la natura matrigna.
Io gliene ho dette di peggio, alla natura, la quale, leopardianamente, non ha battuto ciglio, lasciandomi lì a dover pulire, tagliuzzare, impacchettare e surgelare, fino a notte fonda, quando finalmente me ne sono andata a dormire, con la cucina ridotta a un campo di battaglia e la convinzione che semmai, l'indomani, avessi avuto I Canti in programma, sarei riuscita a dare il meglio di me...


COSCIOTTO DI AGNELLO CON DOUBLE MINT SAUCE



Salsa alla doppia menta

Per quella roba che vedete in foto, sono andata ad occhio, recuperando almeno tre manciate di menta e frullandole bene con un cucchiaio abbondante di zucchero di canna. Nella ricetta originale, ci sarebbe voluto il mortaio, annotazione che aggiungo per mero scrupolo storico, ma su cui non intendo soffermarmi oltre. Dopodiché, ho allungato con un'emulsione di aceto di mele e di acqua ( due parti di aceto e una di acqua), in cui io ho aggiunto un cucchiaino di zucchero di canna e un pizzico di sale, incorporandola a filo, nella salsa, sempre mescolando: un po' come per fare la maionese, per capirci, con la differenza che questa non è una salsa densa, ma fluida. Rispetto alla mint sauce solita, è diventata molto, molto più scura e compatta, a causa della quantità (doppia) di foglie di menta e il risultato è stato più che soddisfacente.

Cosciotto di agnello in salsa alla menta
1 cosciotto di agnello del peso di circa un chilo e mezzo ( meglio se ve lo fate disossare e preparare dal macellaio)
aglio
rosmarino
olio

Tipica ricetta inglese, quindi facile e piuttosto veloce. Fondamentale è il massaggio della carne e va fatto prima con uno o due spicchi d'aglio sbucciati, poi con un velo d'olio (basta ungersi le mani e procedere). Lo si guarnisce con dei rametti di rosmarino ( se è il caso, praticare dei tagli nella carne e infilarli lì) e poi lo si inforna a 200 gradi modalità statica per la prima mezz'ora. Si abbassa la temperatura a 180 gradi e si porta a cottura, rigirandolo dopo circa 45 minuti. I testi sacri parlano di un'oretta- un'ora e venti, voi regolatevi a occhio: quando è bello dorato e trasuda i suoi succhi, è pronto.
toglietelo dal forno, lasciatelo intiepidire avvolto in un foglio di alluminio e servirlo accompagnato da un cucchiaio di mint sauce e da pane all'aglio



venerdì 3 luglio 2009

Nick Hornby- Shakespeare scriveva per soldi

La Dani non me ne voglia, ma se una bella mattina mi svegliassi con a fianco il Genio della Lampada, anzché con il Genio della Critica Sagace et Costruttiva, uno dei tre desideri che esprimerei sarebbe quello di avere Nick Hornby come vicino di casa. Non come fidanzato o marito o mentore, ma proprio come vicino di pianerottolo, quello a cui suoni disperata quando hai bisogno di zucchero, con cui dividi il carico delle borse della spesa e con cui stai a chiacchierare per delle mezz'ore, ciascuno appoggiato sullo stipite della propria porta, perché anche il pianerottolo ha un suo fascino- e se hai la buona sorte di un dirimpettaio simpatico, ancora di più.
E non me ne voglia neppure Nick Hornby se lo svilisco a questo ruolo, dall'alto della sua fama (meritatissima), delle centinaia di migliaia d libri venduti (tutti bellissimi), e delle sceneggiature dei film, delle conferenze, delle recensioni: il fatto è che, al momento, fra tutti gli scrittori in circolazione i cui libri sono transitati da qui, lui è quello che sento più affine, per le cose che dice e per come le dice- e la metafora del vicino di casa è, al momento, quanto di più vicino all'idea di affinità etica e intellettuale e stilistica che ho in questo momento.
Perché, vedete, a noi che siamo stati giovani nei famigerati anni Ottanta, con un'eredità di sogni, speranze e ideali che ci era stata del tutto prosciugata dalle generazioni precedenti, e con un gallo su un piumino e un alberello su una scarpa a farci da modello di vita, non riesce di parlare dei massimi sistemi, proprio per niente. E non perché non li si possieda, sia chiaro: quando ha da distribuire le sue belle mazzate, la vita non sta certo a guardarti la carta d'identità facendoti sconti speciali se sei nato in un'epoca piuttosto che in un'altra. E' solo che a noi, certe cose, non appartengono più e anzi, a dirla tutta un po' ci infastidiscono, e ai toni magniloquenti ed esaltati con cui molti santificano i loro successi, noi preferiamo un divertito distacco, convinti come siamo che qualsiasi cosa ci attenda dietro il prossimo angolo della nostra esistenza, la affronteremo con la misura che ci siamo conquistata, troppo lieve per essere tragica, troppo seria per essere comica, ma che è quella che ci calza a pennello.
Nick Hornby è la traduzione letteraria di quello che ho appena detto: nei suoi libri, infatti, trovate di tutto: dagli aspiranti suicidi alle amanti tradite, dai bambini costretti a crescere troppo in fretta agli adulti che non vogliono crescere mai, dai grandi ideali che si infrangono all'alba ai piccoli traguardi che si ammantano di riscatto e di rivincita. Ma quello che non troverete mai è il tono tragico, enfatico, melenso o scomposto che spesso si accompagna a questi temi, trattati invece con mano leggera, ma sempre sul filo della dignità e del rispetto, propria di chi ha imparato sul campo che ci sono valori che travalicano i tempi e che provare a raccontarli in modo sommesso, garbato ed educato giova più di mille proclami.
tutto questo mi veniva in mente mentre leggevo Shakespeare scriveva per soldi, che è la seconda (e temo ultima) raccolta delle recensioni apparse su una rivista letteraria americana. La prima si intitolava Una vita da lettore e, a mio parere, era molto più bella di questa, che resta, comunque, un ottimo esempio per come si dovrebbe parlare di libri oggi- e cioè, senza rifugiarsi in magniloquismi e artifici da accademia, ma in modo diretto, spiritoso, accattivante. In una parola, simpatico.
Da anni, combatto una crociata personale su questo argomento- e non escludo che la decisione di schiaffare sul blog anche queste "rece" possa essere dipesa dall'esasperazione che mi prende ogni volta che sento parlare di libri dai cosiddetti "organi competenti", dalla scuola alla stampa specializzata, che trasudano di frasi fatte, di periodi ampollosi, di tecnicismi fine a se stessi e di una tale autoreferenzialità che sin dalle prime righe ti accorgi subito che il tizio in questione, anziché del libro, sta parlando di sè.
Hornby, invece, fa l'esatto contrario- ed è qui che sta la sua grandezza: perché lui prende spunto dalla sua vita- che è fatta di figli, di famiglia, di amici, di musica e di calcio- e, a poco a poco, ti porta a parlare del libro che vuol recensire, facendoti vedere come ogni esperienza umana ha voce nelle pagine di un romanzo e come anche le cose che a noi sembrano più banali e quotidiane possono essere, in realtà, un'occasione per riflettere e per guardare al mondo con occhi sempre più "nostri". E - quel che più conta- lo fa in modo ironico, coinvolgente, mai noioso, riuscendo comunque ad infilare perle di saggezza anche nella prosa in apparenza più leggera, confermando, ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, che una forma senza sostanza non regge e che le fanfare servono solo a riempire il vuoto di chi non ha nulla da dire.
Alla prossima
Alessandra